Costume e società, gli antichi fondachi di Venafro | Molise Network

2022-10-07 22:18:45 By : Mr. Vilgot H

VENAFRO – Quando Venafro, più di mezzo secolo fa, era una realtà prettamente agricola, tutte le case dei contadini del Centro storico avevano proprio sotto, ma anche più in là e comunque non oltre il proprio vicolo, la propria stradina, un fondaco più o meno grande, a seconda della disponibilità terriera del proprietario, dove giacevano le provviste del duro lavoro di un’annata. Erano luoghi freschi e bui: la luce entrava solo dalla vecchia porta di legno chiusa dalla caratteristica chiave di ferro, di quelle che si vedono ora solo sulle bancarelle dei mercatini dell’antiquariato, e da qualche piccola finestrella dove le ragnatele stazionavano veramente indisturbate. Anche di giorno, quando la contadina andava a prelevare qualcosa doveva accendere la lampadina centrale che non aggiungeva granché di luminosità visto che era molto esigua come potenza ed era pulita solo quando veniva sostituita. Un contadino mi confidò una volta che la lampadina del suo fondaco si era fulminata “all’improvviso” dopo trent’anni! La pulizia per la conservazione di cibi e bevande non era delle più asettiche, ma sicura e quasi primordiale. In questi fondachi, in apparente disordine, c’erano prodotti dell’orto che si potevano conservare per un po’, ma che nel frattempo dovevano stare al fresco: ad esempio coloratissimi peperoni messi a giacere su lunghi graticci di vimini (rate) per far perdere loro l’umidità, per poi metterli ben pressati, sott’aceto, in boccioni di vetro. C’erano patate, il cesto delle noci, sacchi di grano e granturco, lunghe file di bottiglie di conserve di pomodori fatte in casa e allineate su una rudimentale, lunga e spessa tavola sospesa a una parete. Una vera dovizia era la “roba” del maiale: prosciutti, salsicce, grossi pezzi di lardo, di guanciale appesi a robuste pertiche e poi botti e damigiane per il vino, ziri (cilindri di stagno di varie misure) per contenere l’olio. Circolavano grossi imbuti, caraffe e mestoli per prelevare il prezioso liquido e stai per misurarlo. Al tempo della vendemmia, nelle belle giornate di ottobre, si tiravano fuori le botti per lavarle, asciugarle e toglierci eventuali residui di umidità e muffa facendoci bruciare all’interno dello zolfo, “i zulfariegl”. Più tardi furono di moda quelle di resina ma non ebbero vita lunga perché la vigna stava tramontando. Quando poi fra l’estate di San Martino e le nebbie e le pioggerelle del vecchio e triste novembre, il buon mosto era diventato vino, i contadini, quelli che disponevano di un quantitativo eccedente il loro consumo, procedevano, a turno, a mettere un grosso ramo d’ulivo, la “frasktella”, vicino alla porta del proprio fondaco con una lanterna accanto. E questo era il biglietto d’invito all’assaggio del vino nuovo. I contadini, tra una chiacchiera e l’altra, tra una partitella e l’altra, lo apprezzavano e, se c’era qualche critica da fare, la facevano a bassa voce, con cenni della testa, senza peraltro interrompere la degustazione. Gli artigiani si portavano a casa anche un fiasco o una bottiglia pieni, per consumarlo poi allegramente con la famiglia: direttamente dal produttore al consumatore. Quando finiva la botte, la “frasktella” si spostava ad un altro fondaco e così via per tutto l’autunno e parte dell’inverno. C’erano stabili, a Venafro, tre cantine vere e proprie, a Portanuova, una nei pressi delle “Quattro cannelle”, qualche altra mi pare sul Mercato. Ogni gestore aveva un soprannome molto particolare che ovviamente non riferisco per non urtare forse la sensibilità di qualche lontano discendente, ma mi piacerebbe ricordarli! In queste cantine, in occasione delle fiere che duravano sempre più di un giorno (quella della Concetta, addirittura una settimana), si cucinavano determinate pietanze e sempre le stesse: baccalà, soffritti, saporite trippe e patate… Furono perciò all’epoca anche i primi ristoranti a Venafro. Le “frasktelle” convivevano pacificamente con queste cantine senza sleali concorrenze. Pian piano davanti ai fondachi non si accese più la lanterna, i rami d’ulivo diventarono sempre più rari fino a scomparire. Pian piano le vigne vennero, una alla volta, sradicate perché la loro coltura richiedeva troppo tempo. “Nella vigna bisogna starci sempre dentro” – ripetevano i vecchi contadini e subito dopo aggiungevano che esse erano il “ricamo della terra” e come tale esigevano pazienza e manualità. Qualcuno più colto asseriva che la vite è la pianta della Bibbia; poi, per giustificare i giovani che le stavano abbandonando del tutto, concludevano con tristezza che in esse non si poteva “entrare col trattore”. Anche la conservazione del vino era un’operazione diligente e faticosa tra le fasi lunari e l’assenza del vento. È rimasto solo il detto: “Il vino buono si vende senza frasca!” nel senso che la bontà di un prodotto, sia manuale che mentale, non ha bisogno di pubblicità per essere apprezzata. Ma già non lo si sente ripetere nemmeno più. I frequentatori di questi piacevoli, freschi luoghi d’intrattenimento serale non litigavano mai e se alzavano a volte la voce “dopo un po’”, era per accennare qualche canzone (che peraltro finiva sul nascere perché non conoscevano tutto il testo) o per il vecchio “gioco della morra”.

Reg, Stampa Trib. di Isernia N. 1/2014

3.0 Srls Via Michelangelo Buonarroti, 44 86079 Venafro (IS)

Cod. Fisc. Partita IVA e Iscrizione al Registro delle Imprese di Isernia n. 00920770948 | R.E.A. di Isernia: 42297